
9/11 2001. Il mondo paralizzato. Il ricordo di de Bortoli
Ferruccio de Bortoli per Corriere della Sera
Una giornata piatta, insignificante. Così sembrava quell’undici settembre 2001. Ricordo che andai a pranzo con l’allora prefetto di Milano Bruno Ferrante. Chiacchiere intorno ad argomenti che di lì a pochi minuti sarebbero stati spazzati via da un tornado di emozioni e sentimenti che avrebbe cambiato tutte le nostre vite. Per sempre. Le telefonate cominciarono ad accavallarsi. Freneticamente. Non capivamo che cosa stesse succedendo. Gli occhi erano fissi a quell’immagine della prima torre colpita, con il fumo che la avvolgeva. Il mondo sembrava paralizzato nello sguardo fisso e incredulo a quello che stava accadendo a New York. Non c’erano i social network. Il ritmo delle notizie veniva scandito dalle agenzie e dai canali televisivi (sopra le Torri Gemelle in uno scatto del 1999, foto Ap; sotto, il celebre editoriale di Ferruccio de Bortoli: toccando l’icona blu, il link alla prima pagina del Corriere del 12 settembre).
Il giornale reagì con l’eccitazione nervosa dei grandi avvenimenti ma non aveva in sé, nella propria memoria storica, la misura di un fatto che nessuno avrebbe mai potuto immaginare. L’America sotto attacco. Non era accaduto nemmeno durante la Seconda guerra mondiale. Quella misura il Corriere la trovò subito, quasi per reazione riflessa. Si diffuse in redazione la consapevolezza di vivere un tragico tornante della storia. La necessità di capire, il dovere di documentare. Cominciò incessante, febbrile, un lavoro che sarebbe andato avanti per settimane, nella difficoltà di muovere gli inviati con i cieli che inesorabilmente si chiudevano dando l’impressione che il mondo si fosse di colpo ripiegato su se stesso. Come un gigante ferito che si scopre all’improvviso debole e indifeso. Penso che ognuno di noi si sentisse un po’ smarrito, ma la professione del giornalista richiede una certa freddezza che a volte viene scambiata per cinismo. Emozionarsi troppo significa non far bene il proprio mestiere. Guardavamo — e ascoltavamo nei racconti degli inviati e dei testimoni — gli sforzi sovrumani dei pompieri di New York che cercavano di salvare il maggior numero possibile di persone mentre i corpi di coloro che al fuoco preferivano la morte gettandosi nel vuoto, piovevano al suolo come grandine umana. I soccorritori non potevano emozionarsi, non potevano essere travolti dalla paura (sotto il World Trade Center dopo l’attacco, foto LaPresse).
Ecco i giornalisti, sia quelli sul campo, sia quelli nelle redazioni, fecero — certo meno eroicamente — la stessa cosa. Seguimmo con angoscia crescente lo schianto del secondo aereo sull’altra torre, le notizie frammentarie sul velivolo precipitato sul Pentagono, il misterioso volo dello United 93. Il crollo delle torri, la prima stima dei morti (ventimila?) poi risultata fortunatamente esagerata. Ma cercammo di mantenere — e non fu facile — quel sottile distacco — lo stesso che ha un chirurgo in sala operatoria — necessario per dare conto, nel modo migliore, di un avvenimento epocale. Mi vennero in mente, in quel momento, le parole di Margaret Bourke-White. Quando entrò nel campo di Buchenwald, la celebre fotografa americana raccontò che il dolore indicibile e l’abisso disumano della Shoah la paralizzarono al punto da impedirle di lavorare. Riuscì a scattare le immagini che documenteranno la grande tragedia del Novecento (preziosissime), solo facendo finta di avere davanti a sé una specie di velo protettivo, una sorta di anestetico dell’anima. Accadde qualcosa di simile anche a noi, in quelle ore, in quei giorni, in cui avremmo voluto fermarci e interrogarci sul nostro destino (sotto la prima pagina del Corriere del 12 settembre 2001).
Il Corriere del 12 settembre fu il frutto straordinario di un grande lavoro collettivo, un’edizione leggendaria. Il titolo era «Attacco all’America e alla civiltà». La minaccia era globale, un assalto ai nostri valori occidentali, purtroppo proseguito con la nascita dello Stato islamico e la catena di episodi di terrore che avrebbe insanguinato gli anni a venire. Nei pochi attimi in cui restai chiuso da solo nella mia stanza a pensare che cosa avrei scritto nell’editoriale, scelsi di dare un colpo di telefono al cardinale Martini per capire qualcosa al di là dell’emozione fortissima del momento. Poi mi tornò alla mente la frase di John Kennedy pronunciata a Berlino Ovest, divisa dal Muro, il 26 giugno del 1963. Ich bin ein Berliner, io sono un berlinese. «Tutti gli uomini liberi, dovunque essi vivano, sono cittadini di Berlino». Tutti gli uomini liberi, quel giorno, ovunque si trovassero erano cittadini americani. E nacque quel titolo: «Siamo tutti americani».