
PETROLIO. GUERRA USA ARABIA MA LA VITTIMA E’ L’ECONOMIA GLOBALE
L’Opec, lasciando crollare i prezzi, sta fiaccando il grande produttore americano Rinviati investimenti per 180 miliardi. E se il barile dovesse finire sotto i 20 dollari…
Stefano Agnoli per Corriere Economia
C’è un vincitore dell’ oil contest 2014-2015? Se si guarda agli ultimi numeri e tendenze diffusi dalle agenzie mondiali e dalle varie banche d’affari potrebbe mancare poco per la proclamazione del vincitore: ancora una volta l’Arabia Saudita, ancora una volta l’Opec, grazie alla vecchia, collaudata ed efficiente strategia. Ovvero aprire i rubinetti della produzione e affogare i rivali in un mare di petrolio a basso prezzo, così come era stato nel 1985-86. Un periodo che il ministro del Petrolio saudita Ali al-Naimi non può non ricordare bene, dall’alto dell’esperienza dei suoi 80 anni.
Report
D’altronde l’incipit dell’ultimo Oil market report dell’Agenzia internazionale dell’energia parla chiaro: la big story del mese di settembre riguarda la restrizione dell’offerta. Quella dei produttori non-Opec, per intendersi. L’ultimo collasso dei prezzi, con un brent schizofrenico sceso ad agosto fino ai minimi degli ultimi sei anni, sotto 43 dollari al barile, e poi risalito in pochi giorni sopra 50, avrebbe assestato un duro colpo ai rivali del cartello guidato dai sauditi. Diverse produzioni a costi elevati hanno iniziato a chiudere i battenti. Tra queste si trovano non solo giacimenti russi o del mare del Nord, ma anche campi di Light tight oil nel bacino di Eagle Ford in Texas. In tutto, dice l’Iea, potrebbero sparire dal mercato all’incirca mezzo milione di barili di greggio, un evento che non si registrava più da almeno due anni. Paragonabile, per effetti, al blocco della produzione libica o ad una delle maggiori crisi geopolitiche degli ultimi anni.
Ma ciò che colpisce di più, in questo quadro, è proprio l’avviarsi di un contro-movimento nella finora impetuosa crescita della produzione petrolifera americana. Non va dimenticato, infatti, che gli Stati Uniti sono di gran lunga il maggior produttore petrolifero mondiale. Se si considera la sola estrazione di crude oil (senza cioè altri «liquidi» e scordandosi per il momento anche della massiccia produzione di shale gas ), lo scorso agosto veleggiavano intorno ai 12,6 milioni di barili al giorno, ben sopra la Russia (11 milioni) e assai distanti dall’Arabia Saudita, a quota 10,3 milioni al giorno. Se il primato resta indiscutibile, il gigante Usa inizia però a perdere colpi: rispetto al picco dello scorso giugno ci sono già 200 mila barili al giorno di meno; se nel 2014 l’incremento era stato di 1,7 milioni di barili, a luglio la crescita si era ridotta all’incirca a un terzo di quella cifra e soprattutto, secondo l’Iea, l’anno prossimo dovrebbe trasformarsi in un declino di circa 400 mila barili, proprio per il crollo delle perforazioni e per il naturale rapido esaurimento dei giacimenti sviluppati con la tecnologia tutta stelle e strisce del fracking . Il conteggio degli impianti di perforazione negli Stati Uniti, il rig count , (uno degli indicatori tenuti sotto controllo per valutare l’andamento della produzione), presentava la scorsa settimana uno scenario desolante se confrontato con il recente passato: solo 652 erano attivi rispetto ai 1.592 di un anno prima (e nel 1981 erano addirittura 4.520).
Si può quindi dire che la strategia di lungo periodo dei sauditi stia dando i suoi frutti? Certamente sì, ma non è detta l’ultima parola. Intanto perché un prolungato periodo di prezzi così bassi del barile non fa bene a nessuno, se si eccettuano ovviamente le economie occidentali e la Cina, che peraltro ha i suoi problemi sul versante della crescita. Secondo Goldman Sachs ci sarebbe addirittura il rischio che per un certo e indefinito periodo il prezzo possa scendere a 20 dollari al barile: accadrebbe nel caso che la riduzione della produzione avvenisse troppo lentamente, e che gli stoccaggi, già pieni, superassero la loro capacità. Ma a quei livelli anche per i ricchi sauditi la situazione diventerebbe critica, e lo scetticismo sulla «guerra delle quote» del quale era accreditato il nuovo re Salman (restio a intaccare di 10 miliardi di dollari al mese il fondo sovrano di 733 miliardi) potrebbe riaffiorare con imprevedibili conseguenze. Inoltre, con la prossima ratifica dell’accordo nucleare con il gruppo dei 5+1, il negletto Iran è pronto a tornare sulla scena. Sia inasprendo la competizione diretta con i sauditi sul fronte delle forniture ai Paesi asiatici (nel giro di un anno la sua produzione potrebbe risalire di un milione di barili) sia ostacolando la strategia del Regno all’interno del cartello dei produttori.
Major
E poi non bisognerà dare per morti i petrolieri americani. Se e quando la fase di ribilanciamento del mercato dovesse consolidarsi, al repentino calo della loro produzione potrebbe seguire un altrettanto veloce ripresa. Almeno di quelli in grado di sopravvivere allo stress finanziario che secondo alcuni critici (tra cui alcuni hedge fund) sarebbe connaturato alla rivoluzione shale , che brucerebbe in realtà molta più cassa di quanta ne produrrebbe. Interessati, anzi interessatissimi spettatori dell’ oil contest in corso sono le compagnie petrolifere. I massicci tagli agli investimenti con i quali hanno risposto al tracollo dei ricavi e dei margini (la conseguente pressione messa sull’industria ancillare dei servizi petroliferi) avranno sul medio-lungo periodo l’effetto di riportare il pendolo dalla parte dei prezzi alti. Forse anche bruscamente. Nel 2015, secondo la norvegese Rystad Energy, sarebbero già saltati progetti per 180 miliardi di dollari, una cosa che non si vedeva dal 1986. Ma anche per le majors la traversata del deserto non è ancora finita.