settembre 17

Visco: «L’Italia? Ha reagito alla crisi Ora investire sulla conoscenza»

Daniele Manca per Corriere della Sera



«Stiamo vivendo un momento di cambiamento importante. Una fase per molti versi completamente diversa da quelle alle quali eravamo abituati. Tendenze strutturali, in primis la potente quanto rapida evoluzione tecnologica, si intrecciano con gli andamenti ciclici – la “Grande recessione” – seguiti alle recenti crisi, quella finanziaria globale iniziata nel 2007 negli Stati Uniti e quella dei debiti sovrani che ha colpito l’area dell’euro dal 2010 .

Tendenze profonde che probabilmente risalgono alla caduta del Muro di Berlino, con l’apertura al commercio e al movimento dei capitali, che ha generato la globalizzazione e l’integrazione negli scambi internazionali prima di Paesi sostanzialmente autarchici come la Cina, l’India. E che oggi ci fanno guardare all’Africa come il continente sul quale sono riposte le maggiori aspettative di sviluppo. Apertura che significa anche movimento di persone, come stiamo vedendo drammaticamente in questi giorni. I cambiamenti sono così ampi che pensare di affrontarli con quella che Tommaso Padoa-Schioppa chiamava “veduta corta” invece che con una visione di lungo periodo sarebbe un errore che impedirebbe al nostro Paese e all’Europa di rispondere adeguatamente». 

È l’Ignazio Visco economista, scienziato, che emerge nettamente dal suo libro «Perché i tempi stanno cambiando» (edizioni Il Mulino, in libreria da oggi). Ma uno scienziato che dal suo ufficio di Via Nazionale, da Governatore della Banca d’Italia, ha dovuto prendere decisioni, fare scelte, partecipare e condividere quelle della Banca centrale europea, guidando una delle istituzioni il cui ruolo nelle moderne democrazie si è dimostrato fondamentale nel governo degli accadimenti economici e non solo . 

È innegabile che il sentimento prevalente in questi anni sia quello dominato dal timore per i rischi più che dal cogliere le opportunità di questi grandi cambiamenti? 

«È comprensibile. Il tratto distintivo delle tecnologie digitali e dell’automazione è la velocità con la quale tendono a sostituire il lavoro, anche in campi nei quali il fattore umano appariva finora determinante. La domanda è la stessa che si poneva il discepolo di Keynes, il premio Nobel James Meade: la perdita di occupazione dovuta alle tecnologie sarà permanente? Difficile non comprendere l’angoscia di chi non sa se riuscirà ad avere un impiego» . 

Ma c’è una risposta ? 

«Una situazione del genere si è già verificata spesso in passato, fin dai tempi del movimento dei luddisti contro l’introduzione delle macchine nell’industria all’inizio dell’Ottocento. L’avvento di nuove tecnologie porta con sé la perdita di taluni lavori alla quale ha però di norma corrisposto la nascita di nuovi, in quantità maggiore e di migliore qualità. L’attuale ondata di innovazione in campi come la robotica, la genomica, l’intelligenza artificiale potrà influire notevolmente sulla domanda di impieghi non di routine a qualificazione sia alta che bassa. Oggi la differenza è la velocità con cui l’innovazione tecnologica influenza la disponibilità di posti di lavoro. L’effetto di “spiazzamento” della tecnologia sui lavori esistenti è più incerto e si estende a quelli non di routine. La transizione verso un nuovo equilibrio appare più lunga e con effetti rilevanti sul reddito disponibile, sulla sua distribuzione e, in ultima analisi, sulla domanda aggregata. Bisogna perciò da un lato “investire in conoscenza”, nelle competenze, nel capitale umano necessari per affrontare il cambiamento; dall’altro, prestare attenzione agli istituti necessari per sostenere il reddito di chi perde il lavoro, non solo in un’ottica individuale ma anche macroeconomica» 
Per il momento prevalgono i costi… 

«Dipende anche da come si comunicano e vengono percepiti certi cambiamenti. C’è attenzione sui tassisti dopo l’avvento di Uber mentre non molti si sono preoccupati degli effetti della chiusura di molte librerie a causa di Amazon o di tante agenzie di viaggio dopo l’avvento di Trip Advisor. I cambiamenti comportano costi, anche sociali, quali la perdita di quote di lavoro importanti, ma tendono a prevalere i benefici privati. Chi avrebbe immaginato di potere oggi chiamare gratis in America grazie a Skype ? Una cosa che ai miei tempi quando studiavo negli Stati Uniti era impensabile». 

Qual è il ruolo della politica ? 

«È fondamentale la sua capacità di reazione in tempi adeguati e in via preventiva. Per fare fronte a un fenomeno come quello migratorio non dobbiamo aspettare che accadano disastri e limitarci a gestire l’emergenza. Lo stesso si potrebbe dire sul versante dei cambiamenti climatici dei quali abbiano contezza da vent’anni e più. È fondamentale, come ho detto, l’investimento in conoscenza. Perché la formazione, il sapere, il mettere assieme i saperi, saranno elementi decisivi nella creazione di nuova occupazione. “Unire le menti, creare il futuro” è in effetti il tema della prossima Esposizione universale del 2020» . 

Nel suo saggio si sofferma sui fattori sottostanti la crisi finanziaria globale scoppiata negli Stati Uniti nel 2007 e sulla risposta delle autorità nazionali e internazionali. 

«Le risposte alla crisi finanziaria sono state decise, ad ampio spettro, sia in termini di nuove regole per la prevenzione delle crisi sia di politiche economiche, inclusa quella monetaria. La crisi ha riacceso la sfiducia nelle istituzioni finanziarie. Miti come il mercato che si autoregola o la necessità di avere un light touch sulla regolamentazione finanziaria si sono sgretolati e istituzioni come le banche centrali si sono mostrate decisive per superare la crisi. Si è riproposto il dubbio di Amartya Sen: “Come è possibile che un’attività tanto utile quale la finanza sia stata giudicata così dubbia sul piano etico”. Ma si tratta di regolarla meglio, di renderla chiaramente utile allo sviluppo economico e sociale, non di combatterla acriticamente» . 
Nonostante questa risposta e i segnali di ripresa, come lei sottolinea nel saggio, Larry Summers parla del pericolo di ristagno secolare. 

«Sì, Summers ha riproposto una tesi risalente agli anni Trenta, un eccesso di risparmio sugli investimenti che genera un equilibrio di sotto occupazione. Il quadro potrebbe complicarsi se prevalessero per lungo tempo tassi d’interesse così bassi da alimentare una eccessiva assunzione di rischi finanziari. Ma l’ipotesi di ristagno secolare, già confutata nei fatti dall’espansione economica successiva alla Seconda guerra mondiale, è controversa. Una corrente di pensiero opposta – l’idea della “seconda età delle macchine” di Brynjolfsson e McAfee – ritiene che gli sviluppi della tecnologia riservino effetti sulla produttività e quindi sulla crescita ancora maggiori di quanto finora accaduto. Ma perché questi effetti si realizzino davvero occorre che vi sia un aumento nei redditi delle famiglie e questo può essere rallentato dalla lentezza con la quali si rimpiazzeranno i posti di lavoro eliminati dalle “macchine”» .
Negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione continua a scendere su valori bassi. Perché l’Europa non ha agito con analoga efficienza ? 

«Intanto perché in America davanti alle crisi i primi a reagire sono i privati, in Europa i privati aspettano il pubblico. Il grado di flessibilità dell’economia, che determina anche la velocità di reagire agli choc, è poi notoriamente maggiore. Nell’area dell’euro, la crisi dei debiti sovrani ha minato la fiducia tra Paesi membri. L’innalzamento dei differenziali tra i tassi d’interesse, gli spread, dei titoli pubblici dei vari Paesi è stata dovuta non solo ai dubbi sulla capacità di rimborsare i loro debiti, ma anche al fatto che i mercati hanno creduto possibile la dissoluzione dell’euro» .
Crisi che adesso appare più lontana. 

«La politica monetaria si è mossa con tempestività. Il Consiglio direttivo della Bce con una politica condivisa dai governatori delle banche centrali dei Paesi membri, cosa che si tende a dimenticare, ha reagito efficacemente con tutti gli strumenti a disposizione. Inoltre, sono stati compiuti progressi notevoli nella riforma della governance europea, creando meccanismi per la risoluzione delle crisi sovrane e varando l’Unione bancaria. Altri passi seguiranno. Ma sul versante della convergenza verso l’Unione politica siamo ancora indietro. O perlomeno prevale una tendenza all’essere intergovernativi più che federali» . 

L’interazione tra Bruxelles e le leadership nazionali è stata intensa.

«Sì, ma con una diffidenza di fondo. Le politiche di bilancio restano al centro delle discussioni. Ora si discute anche dell’eccessiva complessità delle regole fiscali alla luce delle numerose riforme adottate dal 2010. Della necessità di una semplificazione non è convinto solo il governo italiano. Questo non deve significare minore attenzione all’equilibrio dei conti pubblici, ma vuol dire rendere più chiare le regole e, io ritengo, tenere conto delle relazioni che intercorrono tra flussi e stock, tra deficit e debiti pubblici. Ma se si continua ad alimentare un approccio confrontational tra Paesi del sud e quelli del nord, non si fa un gran servizio all’Europa» . 

La proposta dei 5 saggi (da Juncker a Tusk passando per Draghi), come quella del ministro dell’economia tedesco Schäuble, mostra però che il dibattito marcia. 

«Certo. Ma forse con l’equivoco di interpretare le proposte come ulteriori cessioni di sovranità nel medio periodo, mentre l’integrazione europea richiede oggi maggiore condivisione di sovranità e di responsabilità. Ci si dovrebbe parlare più chiaramente» . 

Renzi e Merkel lo fanno ma l’Italia rischia di fare la parte del più debole tra una Germania molto sicura di sé e una Francia gelosa della propria sovranità. 

«Molto dipende dalle persone. La leadership è fondamentale. E non sottovaluti la capacità di reazione del nostro Paese dimostrata in questi ultimi anni».
Ma è sufficiente la buona volontà? 

«No. Le riforme che servono sono note, così come abbiamo enfatizzato la necessità di collocarle in un disegno organico e di attuarle nei tempi previsti. Servono innanzitutto una giustizia civile che funzioni, una burocrazia efficiente, un ambiente favorevole alle imprese e rispettoso della legalità». 
Magari più credito alle aziende. 

«Nonostante una crisi che in Italia ha provocato una perdita di Pil di quasi 10 punti percentuali non si sono viste crisi bancarie eclatanti. Vi sono certo difficoltà e in alcuni casi situazioni delicate, ma le condizioni del credito stanno gradualmente migliorando. In Italia, però, le imprese sono troppo dipendenti dal credito bancario e hanno una scarsa patrimonializzazione. Avrebbero bisogno di più capitali dal mercato ma anche dagli imprenditori. Va agevolato l’uso di mezzi propri, non il debito, e bisogna dire che le misure tributarie degli ultimi anni sono andate in questa direzione. E vanno favoriti gli investimenti privati e pubblici» .