dicembre 01

IL VERO FALLOUT DI CHERNOBYL IN ITALIA: 300.000 VITTIME DI TUMORE. LE VERITA’ NON DETTE

Ho appena appreso la tragica notizia di un’altra giovane amica, mamma di due bimbi piccoli, morta di cancro al cervello.

Questo è solo l’ultimo caso di una escalation di tumori nel Nord Italia, ma non solo, dal 1986, anno della sciagura di Chernobyl.

Dopo varie ricerche mi sono imbattuto in un sito di ricercatori “progettohumus.it” , che studia i veri effetti del fallout dell’incidente nucleare.

Un progetto che spiega con attenzione le verità nascoste sul disastro e le reali conseguenze.

La ricerca della verità è un nostro dovere.
È un dovere morale che dobbiamo agli amici morti, ai malati e alle loro famiglie, ai bimbi che portano sul loro corpo i segni delle scelleratezze umane, ai nostri figli e alle generazioni future.
Perché ciò che avvenne il tragico 26 aprile 1986 non si ripeta mai più.

Alessandro Pedrini
ITALIA: LA CONTAMINAZIONE DI CHERNOBYL

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VISITA IL SITO DEL PROGETTO HUMUS

Di seguito l’articolo a firma del coordinatore nazionale del progetto Massimo Bonfatti.

Continuare a parlare di Chernobyl non è provocazione né un mero esercizio accademico. Il vociare di professoroni e scienziati orientati a tranquillizzare, al passaggio della nube radioattiva in Italia, la gente o assecondare l’AIEA (Agenzia Internazionale Energia Atomica) ha smarrito il primo compito, cioè quello di dire la verità.

Da anni, con le nostre poche forze ma con l’ostinazione della consapevolezza della pericolosità del nucleare, maggiormente subdola perché non percepita concretamente, continuiamo il nostro lavoro di controinformazione, anche a rischio di essere insultati o tacciati di creare allarmismo.

Ma così non è! La minimizzazione messa in atto dall’AIEA, nel tentativo di rincuorare l’ignaro cittadino, ha causato un numero maggiore di vittime rispetto a quelle che avrebbero potuto essere salvate con una seria e responsabile prevenzione.

L’AIEA è stata, ed è, la responsabile di un vera e propria strage che poteva, e può, essere evitata: una strage che (assieme agli altri fallout) rappresenta una grande parte di quell’ “epidemia di cancri” che da anni sta coinvolgendo l’intera umanità e che potrebbe, addirittura, essere dimostrata.

Ma ciò rappresenterebbe la morte del nucleare, della sua industria: la lobby del nucleare, l’industria delle armi, l’AIEA non se lo possono permettere. E non se lo può permettere l’OMS (Organizzazione mondiale della Sanità) che dovrebbe spiegare come, a fianco dei programmi di vaccinazione per i bambini e a quelli per la salvaguardia della salute di tutto gli esseri viventi, ha sottoscritto un accordo con l’AIEA (legge WHA 12-40 del 28/05/1959), ancora in vigore, per cui tutte le conseguenze sanitarie di incidenti nucleari devono sottostare alla censura dell’AIEA e non possono essere divulgate senza il suo beneplacito.

Un’omertà di cui l’OMS si è resa complice (come già avvenuto durante la conferenza di Ginevra del novembre 1995, preparatoria al decennale di Chernobyl) e di cui si sta rendendo complice con Fukushima, contravvenendo al proprio mandato di “fornire tutte le informazioni, dare tutti i consigli necessari e tutta l’assistenza nel settore della sanità pubblica; aiutare a formare, tra i popoli, un’ opinione pubblica che disponga di tutte le informazioni necessarie per quanto riguarda i provvedimenti da adottare in materia di salute pubblica”.

Da anni stiamo proponendo a diversi enti e università un progetto concreto per indagare su questa epidemia di cancri: il progetto denominato “Un laboratorio per Yuri”, nonostante i pareri all’apparenza entusiasti di alcuni ricercatori e all’interessamento di facciata di altri scienziati, non ha mai preso avvio. Potenza della lobby nucleare!

Profetiche le parole del premio Nobel per la genetica H.J. Muller nel 1956 e quelle del fisico Bella Belbéoch, il primo maggio 1986, cinque giorni dopo l’esplosione del reattore N° 4 di Chernobyl.

H.J. Muller: “Il patrimonio genetico è il bene più prezioso dell’ essere umano. Esso determina la vita dei nostri discendenti, lo sviluppo sano ed armonioso delle generazioni future. In qualità di esperti, noi affermiamo che la salute delle future generazioni è minacciata dallo sviluppo crescente dell’ industria nucleare e dalle fonti di irraggiamento nucleari…Stimiamo ugualmente che le nuove mutazioni che si manifestano negli esseri umani avranno un effetto nefasto su di loro e sulla loro discendenza”.

Bella Belbéoch: “Bisogna aspettarsi nei giorni che verranno un complotto internazionale di esperti ufficiali per minimizzare la valutazione delle vittime che causerà questa catastrofe. Il perseguimento dei programmi civili e militari impone all’Assemblea degli Stati una tacita complicità che va oltre i conflitti ideologici o economici”.

Il fallout in Nord Italia: i dati omessi

Il nostro lavoro di controinformazione ha la fortuna di potersi avvalere delle analisi dell’AIPRI (Associazione Internazionale Protezione dalle Radiazioni Ionizzanti), presieduta dal prof. Paolo Scampa che è anche socio e membro del comitato scientifico/umanistico di Mondo in cammino. L’AIPRI fu fondata nel 1993 dal francese Jean Pignero e dal belga Maurice Eugène ANDRÉ.

Soprattutto quest’ultimo (di cui Scampa é discepolo) è stato uno dei maggiori esperti nucleari “militari” al mondo, istruttore contro i rischi NBCR (Nucleare, Batteriologico, Chimico e Radiogeno). È lui che ha redatto la “CARTA UNIVERSALE DI SORVEGLIANZA”, vera e propria dottrina e pietra miliare della bibliografia “nucleare”, consultata da tutti gli specialisti ed esperti del settore (pur di opposta tendenza).

Da Maurice Eugène André, l’AIPRI ha ereditato la passione, la capacità, la pazienza e l’ostinazione di cimentarsi in operazioni all’apparenza complesse e scoraggianti, di rapportare cifre, pesi atomici, formule e di intuire le verità sottese all’ufficialità dei numeri compiacenti. L’AIPRI ha per scopo la divulgazione scientifica nell’ambito della fisica nucleare e dei danni radiologici della contaminazione interna. I suoi membri affermano che la radioprotezione non è una mercanzia e che il sapere non ha proprietà intellettuale.

Ed è con questa consapevolezza che l’AIPRI ha sviluppato nel tempo formule, algoritmi e tabelle per analizzare, valutare e scomporre i vari fallout radioattivi.

Ogni intuizione scientifica è frutto di un lavoro metodico e caparbio: l’ultima riguarda il passaggio della nube di Chernobyl sul nord Italia.

I dati resi pubblici durante il passaggio della nube in Italia, nei primi giorni di maggio 1986, hanno colpevolmente e scientemente omesso l’intera gamma di elementi che la componevano, privilegiando e analizzando solamente due radioisotopi: lo Iodio131 o il Cesio137 per attività al metro cubo d’aria.

In sintesi, essendo nota la composizione degli elementi della nube sviluppatasi dal reattore n° 4 il 26 aprile 1986, è possibile calcolare il rateo (ovvero il rapporto) degli elementi presenti attraverso un solo elemento di cui è nota l’attività.

Le informazioni note, o portatrici di intuizioni, da cui è partita la puntuale analisi dell’AIPRI sono state:

1. Il reattore n°4 di Chernobyl conteneva 192,2 tonnellate di UOX (combustibile nella forma di ossido di uranio) arricchito di U235 al 1,80% e irradiato al tasso a 11,3 GwD/t (≈ 11,89 kg fissionati per tonnellata per un totale di 2,29 tonnellate fissionate e 5,53 kg/t attivati per un totale di 1,86 tonnellate attivate). Il combustibile rappresentava, quindi, « a t0 » un’attività radiologica dell’ordine di 16,92 miliardi di Curie, ossia di 6,262E20 Becquerel (6,26E5 PBq). In altri termini il 73,41% dell’ attività era dovuta agli elementi di periodo inferiore ad un giorno, il 26,14% agli elementi del periodo compreso tra 1 giorno e 365 giorni, lo 0,45% ai radioelementi di periodo superiore all’ anno.

2. Tenendo conto dei soli elementi di emivita superiori ad un giorno (come si evince nella tabella riportata dal sito dell’AIPRI), la radioattività fuoriuscita dalla centrale non è da riferirsi ai soli 1,76E18 Bq dichiarati, ma si attesta, invece, ad almeno 1,2E19 Bq, ossia quasi 7 volte di più. Ne consegue che, tenendo come punto di riferimento il solo Cesio137 “ufficiale” fuoriuscito, l’attività complessiva rilasciata fu di almeno 150 volte superiore. Vuole dire che l’aria in Europa era ben più radioattiva di quanto rivelato (per di più la fuoriuscita radioattiva dal reattore n° 4 di Chernobyl non si può attribuire ai soli 10 elementi tradizionalmente presi in considerazione, ma deve valutare anche gli isotopi derivati da questi elementi ed il loro tasso di escursione).

3. Il primo maggio 1986 nel suo passaggio in Italia (soprattutto Nord Italia), la nube ha trasportato picchi elevati di Cs137come riportano diverse fonti fra cui gli archivi di Radioprotezione della Cambridge University Press. È chiaro che lo scenario di pubblico dominio della contaminazione rappresenta solo la media generale della contaminazione aerea osservata alle nostre latitudini; i dati “ufficiali”, infatti, non hanno mai tenuto in debita considerazione che sacche dense di contaminazione non si sono “diluite” nel caos della turbolenza atmosferica ed hanno potuto solcare i nostri cieli nonostante il lungo percorso dall’Ucraina. Questa precisazione é importante perché rivela che nelle medie che, per natura, tendono a fagocitare i minimi e i massimi, non c’è traccia di questi picchi elevati (fra l’altro riportati anche in alcuni simulazioni dall’IRSN, Institut de Radioprotection et de Sûreté Nucléaire): di fatto viene ignorata la gravità delle inalazioni subite in certi momenti e in certe zone del Nord Italia durante il passaggio della nube. Per questo non si può assolutamente escludere, anzi si può sostenere con una presunzione di alta probabilità, l’evenienza che dosi superiori al limite “ufficiale” dichiarato siano state inalate in pochissimo tempo (anche in meno di 3 ore) da un gran numero di persone in Italia, soprattutto il primo maggio 1986 giorno di manifestazioni e di piazze piene.

4. Maurice Eugène André, nei giorni successivi al primo maggio 1986 e, quindi, dopo il transito in Italia della nube, aveva rilevato in Belgio un’abbondante attività alfa (plutonio), in particolare nelle marmitte catalitiche dei veicoli. É da annotare che, subito dopo Chernobyl, la Germania si era adoperata improvvisamente al ritiro delle marmitte catalitiche.

5. Il Cs137 fu solo uno dei 70 elementi radioattivi presenti nella nube di Chernobyl durante il suo passaggio sul Nord Italia; inoltre, assieme ad altri 17 elementi di questi 70, rappresenta quelli che avrebbero dovuto essere imperativamente indagati, soprattutto nel primo mese del viaggio della nube. Questi 18 elementi sono, infatti, quelli che – dopo cinque giorni di decadimento e secondo i fattori di dose ufficiale per inalazione adottati dalla ICRP (International Commission on Radiological Protection) – hanno formato il 98% dell’impatto radiotossico interno dei residui vaganti di Chernobyl. Secondo i calcoli dell’AIPRI, questi elementi non potevano non essere presenti nei trasporti aerei post Chernobyl. Per dovere di cronaca li riportiamo in ordine decrescente con la percentuale di presenza nella nube di Chernobyl: Iodio131 (35,27%), Cerio144 (28,85%), Tellurio132 (4,88%), Plutonio240 (3,78%), Plutonio241 (3,73%), Americio241 (3,64%), Plutonio239 (2,50%), Cerio141 (2,29%), Zirconio95 (2,08%), Xenon133 (1,73%), Cesio137 (1,69%), Plutonio238 (1,68%), Rutenio106 (1,31%), Cesio134 (1,23%), Stronzio90 (1,07), Bario140 (0,95%), Tellurio129M (0,75%), Stronzio89 (0,73%). Una buona parte di questi elementi – come il Cerio141 e 144, lo Xenon133, lo Stronzio89, il Plutonio238, 239, 240, 241, l’ Americio241 – non compaiono mai nelle stime di dose post Chernobyl. Sostiene l’AIPRI che “troncare la realtà fisica per truccare le dosi è un gioco tanto facile quanto suicida”.

6. A confermare ancor più la tesi dell’AIPRI sule stime al ribasso del valore radiotossico della nube di Chernobyl, è sufficiente verificare nelle pubblicazioni italiane, ma anche francesi, i valori dello Iodio131. I dati che venivano riportati all’inizio della fase post Chernobyl si riferivano – senza farlo presente – alla sola forma solida, ma non a quella gassosa. Inizialmente, infatti, non venivano utilizzati i filtri a carbone necessari per catturare i gas, ma solo quelli di carta, utili unicamente per il particolato. E la forma gassosa ha rappresentato solo il 15% dello Iodio131 presente nella nube di Chernobyl. Se i dati, per esempio, riportavano 100 Bq/m3, la lettura corretta andava riportata a 666 Bq/m3. Dunque: le valutazioni della nube di Chernobyl rappresentavano calcoli scientifici e attendibili o fors’anche – volutamente o meno – criminali?

7. I dati dell’ISPRA, riportati nel Rapporto EUR 11226 IT della Commissione delle Comunità Europee (“Incidente nucleare di Chernobyl Aprile 1986 – Ripercussioni sulla catena alimentare e sull’uomo” di Cazzaniga R., Dominici G., Malvicini A., Sangalli E. ) e riferiti ai cinque giorni dal passaggio della nube di Chernobyl, parlano di rilevamento nell’atmosfera di 90 Bq/m3 di Cesio137. Ma quale era effettivamente il livello di radioattività aerea, se il Cesio137 rappresentava solamente uno dei 70 elementi radioattivi della giovane nube di Chernobyl? Risposta: ben 83,20 volte superiore. Infatti, considerando la copresenza – a tassi noti – di tutti gli elementi contenuti dalla nube, si ottiene un ambiente radioattivo effettivo di 7488 Bq/m3 (ovvero 38 nCi). Questa attività, maggiore complessivamente di 83,20 volte, corrisponde nel dettaglio ad un incremento maggiore di 59,14 per la radiotossicità per inalazione e di 33,9 maggiore per la radiotossicità per ingestione. L’ attività globale degli elementi radioattivi presenti nella nube post Chernobyl ha, pertanto, indotto nell’ adulto, e ancora di più nel bambino, un impegno di dose corrispondente a 25,55 microSievert per inalazione con un tasso respiratorio medio di 0,925 m3/h: sufficiente, secondo i coefficienti ufficiali di dose della ICRP, a raggiungere il limite di dose di 1 milliSievert nello spazio di soli 1,8 giorni.

Questa analisi seppur teorica, ma scientificamente inconfutabile, rivela – per il solo periodo che va dal 29 aprile al primo maggio 1986 – che la dose interna ufficiale per inalazione (senza prendere in considerazione il contributo immancabile dell’ ingestione di cibi e bevande contaminate dalle ricadute al suolo), vada moltiplicata mediamente per 40.

L’analisi, inoltre, secondo l’AIPRI, “mette a nudo le spaventose bugie e le criminali minimizzazioni sul livello di radioattività dell’aria durante il passaggio della nube di Chernobyl sull’Europa… i dati dei primi giorni pervenuti ai cittadini hanno in effetti meticolosamente omesso di prendere in conto l’intera gamma dei radioelementi dispersi e hanno al meglio segnalato soltanto l’attività al metro cubo d’aria o dello Iodio131 o del Cesio137, le due punte dell’ iceberg. In questo modo la radioattività è comparsa fino a 100 volte minore di quanto non fosse veramente. In questo modo centinaia di milioni di persone fiduciose negli istituti di radioprotezione che indicavano loro la strada per le docce invece di stare al riparo nelle abitazioni si sono inutilmente contaminate respirando a sazietà i miasmi radioattivi inodori: molte di queste persone sono già morte e molte altre ancora moriranno. In questo modo le dosi assorbite dalle popolazioni sono state colpevolmente sottostimate e continuano ad esserlo nelle attuali pubblicazioni”.

I dati che maggiormente fanno riflettere e fanno tremare le vene sono quelli riguardanti il rapporto fra l’attività attribuita al solo Cesio137 e quella complessiva che tiene conto, invece, di tutti gli elementi radioattivi presenti nella nube, ovvero di quelli che erano “inevitabilmente” presenti e con un tasso di attività deducibile e attribuibile derivandolo da un valore di un solo elemento noto (il Cesio137, appunto).

Ad un giorno dal suo rilascio (27 maggio 1986), la nube era 170,3 volte più radioattiva del solo Cs137 reso pubblico e, pertanto, 82,31 volte più radiotossica per inalazione e 53,54 volte per ingestione; a due giorni 128,9 volte più radioattiva ovvero 71,95 volte più per inalazione e 45,82 volte per ingestione; a tre giorni 108,3 volte più radioattiva ovvero 66,25 volte più per inalazione e 40,74 volte per ingestione; a quattro giorni 94,2 volte più radioattiva ovvero 62,4 volte più per inalazione e 39,6 volte per ingestione; a cinque giorni 83,2 volte più radioattiva ovvero 59,14 volte più per inalazione e 33,9 volte per ingestione (sono i giorni a cui si riferiscono i dati dell’ISPRA pubblicati nel Rapporto EUR); a sei giorni 74,2 volte più radioattiva ovvero 56,16 volte più per inalazione e 31,34 volte per ingestione; a quindici giorni 33,1 volte più radioattiva ovvero 41,88 volte più per inalazione e 17,72 volte per ingestione; a trenta giorni 15,8 volte più radioattiva ovvero 33,49 volte più per inalazione e 9,83 volte per ingestione.

Riportare queste proiezioni dell’AIPRI a 28 anni dall’incidente di Chernobyl può sembrare anacronistico o puro sensazionalismo. Il recente riscontro dei cinghiali radioattivi ci dice però che non è così, come – allo stesso modo – ce lo potrebbe confermare una seria indagine epidemiologica.

La ricerca dell’AIPRI copre il vuoto di una ricerca che all’inizio era onesta e indipendente e che, però, si é arrestata dopo i primi 10 anni: i dati di molti ricercatori scrupolosi, infatti, stavano dimostrando – a livello scientifico e con dati inoppugnabili – la gravità delle conseguenze del fallout generatosi a partire dal 26 aprile 1986.

Per esempio, nella stessa Italia, nel 1996, uno studio dell’ Istituto Superiore di Sanità e presentata dal fisico Eugenio Tabet, dirigente di ricerca presso lo stesso Istituto, nel corso di un convegno dall’ ANPA (Agenzia Nazionale per la Protezione dell’ Ambiente) aveva dimostrato che nelle regioni settentrionali la radioattività era stata doppia rispetto al resto del Paese e che le conseguenze della nube di Chernobyl sulla salute degli italiani non sarebbero state “irrilevanti”, come fu detto e ripetuto all’ indomani della catastrofe da tecnici e ricercatori preoccupati di tutelare l’ immagine dell’ industria elettronucleare nel nostro Paese. Il numero dei morti per i cancri indotti dalla contaminazione radioattiva non è stato, e non sarà , di “appena qualche decina”, come fu calcolato sulla base delle prime rilevazioni.

Sosteneva Tabet 18 anni fa, partendo dall’analisi del solo Iodio e del solo Cesio che “tradotta in dose collettiva assorbita dall’ intera popolazione italiana l’ eredità di Chernobyl vale circa 60.000 Sievert persona. Applicando a questa cifra la formula per l’ incremento di rischio, assunta dall’ ICRP, si ricavano circa 3.000 casi di tumori letali”. Questa cifra, unita a quelle delle conseguenze nei vari paesi colpiti dal fallout di Chernobyl, rappresentava – già solo 10 anni dopo l’incidente – un’enormità che non poteva essere avallata dall’AIEA e che doveva essere necessariamente minimizzata e silenziata per evitare possibili cause di risarcimento e class action.

Partendo dai dati pubblici della ricerca dell’Istituto Superiore della Sanità derivati da quelli allora “ufficiali” del fallout del Cesio137 e dello Iodio131, il lavoro minuzioso dell’AIPRI pone scientificamente l’asticella di previsione dei casi si tumori letali al numero impressionante – ed approssimato per difetto – di 300.000.

Inoltre, già a volerla interpretare con coerenza uscendo da una posizione di comodo o acriticamente “asettica” , la lettura dei dati riguardanti le patologie tiroidee e diffuse il 25 maggio 2013 nel corso della giornata mondiale della tiroide, spaventa: sei milioni di italiani sofferenti di una malattia della tiroide; un aumento del 200% dei casi di tumore negli ultimi 20 anni; triplicate le malattie autoimmuni (come la tiroidite di Hashimoto); presenza di noduli tiroidei nel 30-50% delle persone sottoposte a screening ecografico.

Inevitabile quindi, per l’AIEA, fare in modo che le statistiche mantengano il basso profilo della “neutralità” senza correlazione con Chernobyl o con altri fallout; ma, soprattutto, che cifre e dati comprovanti la gravità del fallout di Chernobyl (non solo in Italia, ma in tutto il mondo) e denuncianti la scandalosa minimizzazione volutamente perseguita – come quelli resi pubblici dall’AIPRI – siano ignorati o che per bocca dei propri scienziati prezzolati siano tacciati di enormità se non di faziosità.

Ma solo tenendo conto di questi dati, per quanto sconvolgenti siano, si può fare vera prevenzione.

Come diceva 18 anni fa Tabet, esistono ormai chiare indicazioni che ogni incremento della dose, per quanto piccolo, provoca un aumento dei tumori. Considerando il fallout di Chernobyl e tutti quelli derivati da altri incidenti e dagli esperimenti nucleari, si può facilmente capire come si possa innestare un meccanismo per cui le dosi del fondo naturale di radiazione, altrimenti innocue, possano – per effetto cumulativo – dare luogo a un’azione cancerogena o teratogena significativa nel corpo umano. Se poi si considera che queste piccole dosi vengono distribuite agli individui di una numerosa popolazione, ecco che il numero dei cancri letali attesi può diventare estremamente importante.

In definitiva, la vera prevenzione nasce dalla conoscenza della verità.

E la verità ci porta, con scienza e coscienza, ad affermare che l’eredità nucleare è ormai infinita, anche se non si costruisse più nessuna centrale e si chiudessero tutte quelle esistenti; in più ci esorta a comprendere che non c’è possibilità di uscirne se non facendo prevenzione.

E i numeri dell’AIPRI sollecitano ad intervenire e ammoniscono che non è mai troppo tardi.

Esistono modalità e strade per fare prevenzione e i cittadini devono sapere che più che farsi spaventare dai numeri, devono maggiormente preoccuparsi del fatto che esse non siano perseguite. Così come i danni del nucleare esistono già e sono ineliminabili, allo stesso modo esiste una grande possibilità di contenerli e prevenirli e con essa la fiducia e l’ottimismo per un futuro migliore di quello che invece ci lascerebbe l’eredità nucleare qualora continuasse ad essere ignorata o sottovalutata.